lunedì 2 ottobre 2023

RIPRENDERE LE LOTTE: PER LA COSTRUZIONE DI UN COORDINAMENTO NAZIONALE







Osservazioni critiche sul seminario del 04/09/2023 su “La certificazione della parità di genere”.


Di Elena Felicetti
Assemblea Generale territoriale FLC Pavia


Questo resoconto personale del seminario on line (intercategoriale per lavoratori e lavoratrici della Lombardia) non intende addentrarsi sugli aspetti normativi riguardanti il Sistema di Certificazione della parità di genere”, il cui materiale è reperibile on line (Dipartimento per le Pari Opportunità - (pariopportunita.gov.it) ma intende piuttosto restituire un punto di vista su quanto proposto e discusso nell’ambito di quel seminario.

Pensavo che questo seminario servisse a discutere di questa misura normativa e del suo impatto sui luoghi di lavoro, tenuta in considerazione la storica e strutturale questione della disparità di genere. Vorrei da subito sottolineare che questo dispositivo normativo è rivolto alle imprese e non alle lavoratrici, le quali per tutelare gli aspetti importanti della propria condizione di vita e di lavoro dispongono già di altri strumenti legislativi e sindacali. Ricordo inoltre che questi strumenti sono stati ottenuti con la grande ondata di lotte che ha attraversato gli anni ’60 e ’70, grazie alla determinazione del movimento operaio nel suo insieme e con un ruolo di protagonismo delle donne tanto nelle fabbriche quanto nelle piazze.

Ebbene l’obiettivo del seminario era far emergere “gli aspetti positivi e gli aspetti negativi” della certificazione e in secondo luogo “come lavorare per rendere efficace questo strumento”. Su questa seconda dichiarazione colgo la motivazione principale che ha chiamato a raccolta le compagne per un confronto. Ciò che mi ha ulteriormente lasciato senza parole e mi ha gettato nello sconforto è l’aver constatato che molte compagne pensano che sia uno strumento utile! Qualcuna addirittura ha deciso di inserirlo nella contrattazione e altre stanno spingendo in questa direzione, che è la linea della maggioranza, viste le dichiarazioni a riguardo1.

A chi giova questo? Qual è l’utilità di una simile decisione?

Io penso nessuna. Ma a sostegno di ciò che penso è utile e rispettoso offrire delle argomentazioni nel merito.

DATI E STATISTICHE

Il reperimento di dati e delle statistiche non può che servirsi delle agenzie preposte a tal scopo. La compagna G.F. che ha introdotto il seminario si è servita del Word Economic Forum, poiché ISTAT ed Eurostat non sono, secondo lei, esaustivi. Considerazione rispettabile. Il reperimento dei dati e delle fonti è una fase importante per dare legittimità e scientificità a ciò che si sostiene. Il punto è un altro. Al di là dei canali utilizzati (quelli citati sono tutti validi) la questione rimane: come leggere questi dati?

Ne offro un esempio su un’analisi condotta in fase di pandemia da coronavirus, fase in cui la crisi pandemica aveva aggravato la già esistente crisi capitalistica. I dati all’epoca reperiti sull'occupazione (febbraio 2021- governo Draghi) confermavano una tendenza al peggioramento: disoccupazione crescente, imminente sblocco dei licenziamenti (annunciato e rimandato per diversi mesi), precarietà economica. Al momento la rilevazione da me elaborata sui dati Istat (dati destagionalizzati sul III trimestre 2019 e 2020) era la seguente:

“553.000 occupatǝ in meno di cui 312.000 sono donne. Se invece consideriamo la condizione dǝ disoccupatǝ più inattivǝ registriamo un aumento di 408.000 persone di cui 302.000 sono donne. Nell'indagine svolta dalla Fondazione Consulenti del Lavoro dal titolo “Ripartire dalla risorsa donna”2 si leggono dati diversi poiché tarati sul confronto tra II trimestre 2019 e II trimestre 2020. Il calo occupazionale era registrato a 470.000 unità ma non c'è stato un miglioramento nel trimestre successivo da noi preso in esame e a ben guardare sono aumentate le donne inattive (+227.000). Tra i motivi dell'inattività, al di là della forza lavoro giovanile rimpolpata dagli abbandoni scolastici e dalla difficoltà ad inserirsi se non in condizioni di estrema precarietà, notiamo che la percentuale più alta riguarda i “motivi familiari” al 22%. Motivi familiari forse riconducibili al fatto che molte donne hanno lasciato il lavoro per dedicarsi alla cura dei propri familiari, figli e genitori in primis?

La perdita del lavoro ha inciso sul lavoro indipendente (35%) e soprattutto sul lavoro dipendente a tempo determinato (73%), in particolare nel settore terziario commerciale e dei servizi.”

Il senso dell’esempio sopracitato riguarda non tanto la riproposizione in maniera fedele dei dati ma la modalità con cui leggerli. Per quanto mi riguarda è inconcepibile suddividere disoccupati e inattivi poiché il termine inattivo coinvolge situazioni soggettive diversificate e presenta contorni sfumati. Si tratta di forza-lavoro non occupata, parte della quale aveva perso il lavoro a causa del disastro pandemico. Questo è il dato oggettivo.

Per tale motivo vorrei offrire un’analisi sul gender pay gap un po’ differente rispetto alla sola retorica del femminismo mainstream.




GENDER PAY GAP

Per Gender Pay Gap si intende il differenziale salariale o divario retributivo di genere. Nel mondo, da paese a paese, ci sono differenze molto significative. Sarebbe interessante poter conoscere queste situazioni ma per ragioni di brevità dobbiamo purtroppo soffermarci all’Italia.

Riporto una mia ricerca del 2020:

“Per quanto riguarda il nostro paese se consideriamo “la differenza media della retribuzione lorda oraria (al lordo di tassazione e contribuzione per il lavoratore/lavoratrice) a parità di ruolo e mansione”, il problema non emerge. In relazione a ciò il dato sembra infatti virtuoso (5,6%); tuttavia altre ricerche e articoli sottolineano come “anzitutto, il dato OCSE riguardi solamente i lavoratori full time, mentre sappiamo che quattro donne su dieci oggi lavorano part-time (dato Istat)”3. Ciò deriva principalmente dalla difficoltà di conciliazione tra famiglia e lavoro, dato che al lavoro produttivo e riproduttivo salariato si aggiunge il lavoro riproduttivo domestico, che sembra essere ancora in gran parte appannaggio esclusivo delle donne. Questo è uno dei motivi principali per cui le lavoratrici sono spesso costrette ad accettare part-time involontari. Situazione sconfortante confermata dal Global Gender Gap Report 2020, dove l’Italia si colloca al 76° posto su 153 paesi e al 125° per disparità salariale e opportunità di partecipazione alla vita economica.”

La conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, in alcuni settori, è stata “risolta” con lo smartworking, altro capitolo doloroso che non ho qui tempo di analizzare adeguatamente.

Aggiornando ad oggi i dati, non penso che la realtà sia radicalmente mutata. La tendenza descritta è strutturale ed ovviamente con la pandemia ha potuto solo peggiorare.

Non mancano, tra l’altro, i dispositivi normativi che (seppur formalmente) tutelano la parità di genere nei luoghi di lavoro, nello specifico l’art. 37 della costituzione e la legge n. 903/1977.

Dunque, il gender pay gap emerge in base a due fattori materiali: l’entrata tardiva delle donne nel mondo del lavoro o la loro esclusione per mansioni relegate all’ambito domestico e l’uso del part time sempre legato alle incombenze della vita quotidiana. Le ricadute sono ovviamente discriminatorie e riguardano in particolar modo le pensioni a livello retributivo. Inoltre, devono essere presi in considerazione le difficoltà legate alla vita lavorativa delle donne: molestie, mobbing, firma in bianco di dimissioni in fase di assunzione, colloqui per constatare se ci sono maternità in corso o intenzione di intraprenderne, demansionamenti, bassi inquadramenti contrattuali, mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro etc… Non dimentichiamoci inoltre che le discriminazioni di genere riguardano anche la comunità LGBTQIAP+.

SGRAVI FISCALI E REGALIE ALLE IMPRESE

Uno degli aspetti sul quale mi sarebbe parso più opportuno soffermarci riguardo a questa certificazione è quello che riguarda gli sgravi fiscali e contributivi per le imprese pubbliche e private con più di 50 dipendenti. Sgravi che, a quanto pare, servono a coprire le spese di consulenza e accreditamento della Certificazione. Peccato che qualcuno si sia già portato avanti con i lavori. Regione Lombardia, come ha riportato la compagna V.C., ha emanato a suo tempo un bando per coprire i costi di certificazione. Mi chiedo se le imprese aderenti a questo punto abbiano ottenuto lo stesso gli sgravi!

Il bando, come riportato sul sito della regione4, riguarda lo stanziamento di 10 milioni di euro, il cui ente gestore è Unioncamere (unione delle camere di commercio lombarde). Quante altre regioni seguiranno l’esempio?

Accanto agli sgravi, l’acquisizione della certificazione comporterebbe l’attribuzione di un punteggio premiale nella partecipazione ai bandi di gara finanziato con fondi europei.

Siamo in una fase politica in cui stiamo affrontando dei pesanti attacchi nei confronti dei lavoratori e delle persone in condizione di povertà. Per rimanere nella storia recente: la riforma del fisco del governo Draghi (Legge 30 dicembre n. 234) ha previsto la revisione degli scaglioni IRPEF e il taglio del cuneo fiscale. La revisione degli scaglioni porterà vantaggi ai soli redditi tra i 40.000 e i 50.000 euro e ovviamente ai redditi che superano i 75.000 euro, la cui tassazione rimane invariata. Peccato che su un totale di 41.525.892 contribuenti, l’88,9% (cioè 36.944.130) siano in parte lavoratori (22.461.167 redditi da lavoro dipendente) e in parte pensionati (14.482.963).

Il sistema pubblico non può interamente ricadere sulle spalle dei lavoratori e agevolare le imprese.

Alla riforma del fisco si è anche aggiunta la riforma delle pensioni: passaggio da quota 100 del governo Lega-M5S (62+38), a quota 102 (64+38), rinnovo di Opzione donna e proroga dell’APE Sociale (introdotta dalla legge di Bilancio nel 2017). Il tutto si è inserito nella tendenza all’innalzamento dell’età pensionabile, con il passaggio al sistema contributivo e un abbassamento delle rate percepite, il tutto ovviamente finanziato con i contributi dei lavoratori attivi in base al principio della ripartizione.

Il governo Meloni ha continuato su questa strada, peggiorando ulteriormente la condizione dei salariati a vantaggio delle imprese, che si vedono confermati e implementati i benefici elargiti da Draghi a svantaggio di un fisco che, come già illustrato si basa all’88,9% sulle spalle dei salariati: la prima manovra del novembre 2022, con i 32 miliardi per le bollette ricavati dalla vendita di titoli di stato e messi a carico della fiscalità generale e dal taglio alla spesa sociale, maggiorazione del credito d'imposta (dal 30% al 35%) per bar, ristoranti, piccole attività e maggiorazione dal 35% al 40% dei bonus fiscali alle imprese a forte consumo di energia elettrica e gas. Nonché altre agevolazioni per le imprese indirizzate al made in Italy. A questo si sono aggiunti la flat tax incrementale per le partite IVA al 15%, l’abolizione del reddito di cittadinanza (sostituito dal nulla), e il taglio al cuneo fiscale.

A fronte di un fisco che già si appoggia quasi integralmente sui salariati, come sopra riportato.

INSERIMENTO NELLA CONTRATTAZIONE: LA QUESTIONE DEL CONTROLLO OPERAIO

Mi chiedo dunque quali indicatori della certificazione siano considerati condivisibili e quali no. Alcuni indicatori sono interessanti per avere una fotografia, il più possibile reale delle condizioni lavorative delle donne ma non di più. Cito ad esempio “partecipazione e opportunità economiche”, “livello di istruzione” e “salute e aspettative di vita”.

Questa certificazione è stata concepita però ad altri scopi: l’obbligo di assunzione della quota di genere (vale anche per gli uomini in settori in cui sono prevalenti le donne) non risolverà un problema strutturale. Anzi potrebbe persino peggiorarlo, nei settori in cui le donne sono maggioritarie.

In un momento in cui il movimento operaio attraversa una fase di passivizzazione, anche per responsabilità delle direzioni sindacali CGIL inclusa, pensare di poter inserire la certificazione di genere nella contrattazione aziendale si tradurrebbe nella creazione di una cogestione dell’impresa tra operai e padroni.

Diverso fu il ruolo dei consigli di fabbrica, dove il senso del controllo operaio sulla produzione partiva dal presupposto che i lavoratori tutelavano loro stessi e non l’impresa. Erano un contropotere nella fabbrica, non i consiglieri dei padroni. Chiedere che il sindacato venga coinvolto e che si debba inserire nella contrattazione uno strumento del genere, con la conseguente concessione di sgravi fiscali e contributivi alle imprese, penso sia sbagliato.

Oltretutto, la preoccupazione e la critica emerse nel dibattito, cioè di considerare la parità di genere come questione tecnica, è una critica condivisibile ma contribuire alla stesura di una prassi paranormativa condivisa con la controparte, contraddice tutto questo.

I LAVORATORI SI TUTELANO CON IL SINDACATO E CON LA LOTTA

Mi è piaciuta molto la frase, se non sbaglio, sempre della compagna G.F.: “le discriminazioni sono minori dove è forte la contrattazione” e mi chiedo come questa frase possa conciliarsi con l’intenzione di diventare consigliere di parità tra RSU e RSA, dato che già queste figure sono formate (si spera) e preposte alla tutela sindacale di ognǝ lavoratorǝ.

Laddove è forte la contrattazione significa che ǝ lavoratorǝ non hanno bisogno di una Certificazione sulla parità di genere poiché grazie alla loro forza e coesione riescono ad ottenere importanti risultati, utilizzando tutti gli strumenti già esistenti, patrimonio del movimento operaio. È tempo che la CGIL torni a fare il sindacato, che chiami scioperi, che organizzi lotte, senza preoccuparsi del destino dei padroni.

Di seguito le mie proposte.

PER LA COSTRUZIONE DI UN COORDINAMENTO NAZIONALE: per promuovere maggiore partecipazione delle lavoratrici in ambito sindacale. Per la sua costruzione si richiama la necessità di un approccio democratico: partire dalla stesura di documenti su cui avviare un dibattito e si proceda con conferenze territoriali sino alla realizzazione di una conferenza nazionale per delegate.

PER LA COSTRUZIONE DI UNA PIATTAFORMA GENERALE che rivendichi:

la difesa del lavoro, unico effettivo strumento di autodeterminazione, con l’abolizione di tutte le leggi che hanno precarizzato il lavoro e ne hanno eliminato le tutele: il pacchetto Treu, la legge Biagi, il Jobs Act e le controriforme degli ultimi trenta anni ci espongono ai ricatti sociali e sessuali;


Introduzione del collocamento pubblico a chiamata numerica;


la ripartizione del lavoro con la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 30 ore pagate 40 ; parità salariale per tuttǝ.


La reintroduzione dell’articolo 18 sui licenziamenti, esteso a tutte le aziende con almeno 5 dipendenti.


La nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo dǝ lavoratorǝ delle imprese che chiudono, inquinano o delocalizzano: ci serve lavoro, non un reddito di povertà alternativo al lavoro!


Salario minimo di 12 euro l'ora (1500 euro mensili) e indicizzata all'inflazione;


forti aumenti salariali di almeno 300 euro netti, e di una scala mobile dei salari;


Il salario garantito per chi è in cerca di occupazione, contro ogni forma di reddito slegato dalla condizione lavorativa, che non garantisce autonomia, ma al contrario prospetta maggiori possibilità di rinchiudere le donne nell’ambiente domestico.


Riforma delle pensioni che faccia a pezzi tutte le controriforme pensionistiche, per ritornare al sistema retributivo al 2% annuo con 60 anni per la pensione di vecchiaia e 35 anni per la pensione di anzianità, dopo una vita lavorativa in cui a tuttǝ sia garantito un lavoro completo di tutele in ogni settore.


Tutela della maternità e congedi parentali retribuiti per tuttǝ (affinché la genitorialità non sia prerogativa delle sole donne).


Revisione e aggiornamento della sicurezza sui posti di lavoro; istituzione del delitto di omicidio sul lavoro.


Patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione, destinata a Sanità e Scuola.


Un welfare statale che non ci renda schiavǝ all’interno della famiglia, con l’istituzione di un ampio programma di servizi sociali che si prenda in carico l’enorme quantità di lavoro di cura che oggi pesa maggiormente sulle spalle delle donne, nella prospettiva della socializzazione del lavoro di cura.















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